OLTRE I PARADISI: THEOSIS; MOKSHA, NIRVANA O DELLA "PERFETTA REALIZZAZIONE" (di Gianluca Marletta)
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(Dal libro: G.Marletta, "L'Eden, la resurrezione e la terra dei viventi, Ed. Irfàn)
Ogni realtà che ha un “inizio” deve necessariamente avere una “fine”. Questo principio metafisico ci consente di intuire, per contrasto, cosa debba intendersi col concetto di Eternità. Scrive San Tommaso d’Acquino, (Summa Theologica I, 10. 97):
"L’idea dell’eternità consiste nell’apprensione dell’uniformità di ciò che è fuori dal moto. (…) Ma siccome ciò che è interamente immutabile non ha alcuna successione, così non ha inizio né fine (…)".
L’eternità è chiamata “intera” (tota), non perché abbia parti bensì perché non manca di alcunché. Non mancando di nulla, è evidente che l’Eternità è sinonimo di Infinità, non il presunto “infinito” aritmetico o cosmico (che può essere detto, tutt’al più, indefinito), ma proprio l’Infinito Divino, a cui nulla manca e dove tutto quello che esiste, è e persino ciò che non è (nel senso che non si manifesterà mai), sussiste in un’assoluta semplicità e unità.
Pertanto, qualunque stato “individuale”, pertanto, foss’anche il più alto e sublime o il più infero, non può essere per definizione considerato come “infinito” e quindi come “eterno”.
Ma c’è una possibilità di cui non abbiamo ancora parlato – e alla quale accenneremo solo di sfuggita - che è quella della divinizzazione dell’essere. L’essere può essere Eterno, può identificarsi con l’Eterno, nella misura in cui l’Eterno stesso lo “riassume” in Sé. Per tale essere, quindi, nessuna delle limitazioni degli stati condizionati – foss’anche quello paradisiaco - ha più un senso.
Stiamo parlando di quella possibilità che la tradizione cristiana dei padri orientali definisce come Thèosis (Divinizzazione), ma che l’Induismo conosce come Mokṣa (Libera zione), il Sufismo islamico come Identità Suprema e la tradizione taoista come la realizzazione del chéun-jen (Uomo Trascendente o Uomo Universale).
La Salvezza e il raggiungimento dello Stato Primordiale sono, dunque, solo “l’inizio” del Viaggio Divino: ad esso fa seguito quella che nei Vangeli è chiamata l’Ascensione ai Cieli, dove l’essere è attratto prima attraverso gli stati superiori dell’essere (detti angelici nel linguaggio teologico) fino all’identificazione con il Sé Divino. Come nell’essere decaduto, infatti, il “centro di gravità” è costituito di fatto degli stati infernali, nel Beato esso coincide con Dio stesso, che attira inevitabilmente l’essere nel suo stesso “seno” fino alla perfetta consumazione e unione.
Il Paradiso “individuale” e ancora “umano”, dunque, viene riassorbito dai “Paradisi” celesti finché gli stessi Paradisi sono riassorbiti in Dio. Tale processo, non di rado, viene simbolicamente indicato – in al cune tradizioni spirituali - con l’immagine dell’estinzione dell’essere nella Divinità o nell’Assoluto; e tuttavia, tale concetto va inteso come un’iperbole. Ciò che “si estingue”, infatti, non è l’essere – perché il più contiene necessariamente il meno e gli stati superiori contengono quelli inferiori - ma solo l’illusione della separatezza.
L’Ascensione ai Cieli e la successiva Divinizzazione, infatti, nulla “annienta” di ciò che è – perché nulla può perdersi nel Tutto - ma piuttosto dilata e reintegra il parziale e il limitato nell’illimitato e nell’infinito.
Da questo punto di vista, è significativa l’immagine dell’Assunzione della Vergine Maria in Cielo in anima e corpo: la Vergine – che è anche immagine perfetta di ciò che i fedeli sono chiamati a realizzare - viene reintegrata negli stati superiori financo nelle sue determinazioni individuali (possibilità che l’essere può riacquisire quando vuole come dimostrano, proprio nel caso della Vergine Maria, le Sue numerose “apparizioni” in forma umana).
D’altronde, anche nelle tradizioni orientali “l’estinzione” non sembra avere affatto il senso di “annullamento”. È un orientale di tradizione indù, Ananda K. Coomaraswamy, che spiega con chiarezza cosa si debba intendere con il concetto di “realizzazione spirituale” ed “estinzione” dell’ego:
"Tale è la pienezza, che, come dicono le Upanisad, togliendole la Pienezza, Essa resta nondimeno Piena. Nessun Sufi, nessuno in samadhi, nessun mistico occidentale, si è mai sentito sminuito dal suo “momento d’illuminazione”. Ve dere “il mondo in un granello di sabbia e l’eternità in un’ora” – se fosse con cesso - per chi non sarebbe abbastanza? La libertà di essere come e dove e quando si vuole, o dappertutto, o in nessun luogo […] come si fa a “sentire” che qualcosa manca in un’”eternità” che, per definizione, di nulla è manche vole? In questo “onni-conseguimento” (sarvapti) non resta alcun desiderio in soddisfatto; né si può immaginare di essere “senza desideri” se non quando tutti i desideri sono soddisfatti, poiché allora il desiderio riposa nel suo og getto. […] Qui, dato che “il cambiamento è morte” […] ogni incontro è il primo incontro, e ogni distacco è per sempre. Gli incontri e i distacchi (di cui nascita e morte sono null’altro che casi speciali) sono possibili solo nel tempo, e ci rallegrano o addolorano solo perché “noi” siamo o, meglio, ci identifichiamo erroneamente con i tabernacoli psicofisici e mutevoli che il nostro Sé assume, e riteniamo così di essere creature del tempo. È in quanto creature del tempo che ci addolora l’appassire dei fiori e la morte degli amici. […] Ma coloro che qui sono ancora vivi, e quelli deceduti, e qualunque altra cosa uno desideri senza ottenerla, tutto ciò egli lo trova quando entra lì".
Nell’Eternità e nell’Infinità (che sono sinonimi) nulla può dunque realmente sminuirsi od “estinguersi”, fuorché l’illusione della separatezza che genera divenire e morte. Ed il “dono fatto all’Uomo” è proprio quello – unico fra gli stati dell’essere e le creature - di poter mirare a questo supremo obbiettivo.
Il Fine dell’Uomo, dunque, è paradossalmente quello di trascendere l’Uomo stesso pur rimanendo perfettamente Uomo, ovvero “immagine di Dio”. È questo il destino superiore che la dottrina cristiana dell’Uomo-Dio adombra ai fedeli (in sintonia perfetta, peraltro, con le dottrine “profonde” presenti in tutte le tradizioni religiose e spirituali dell’umanità).
Tale verità è espressa nel Magnificat, dove la Santa Vergine, la “più alta d’ogni creatura”, canta:
"L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore".
L’anima della Vergine “magnifica” (megalùnei è psichè mou) perché rappresenta l’espansione orizzontale e piena delle possibilità individuali, mentre il Suo spirito “esulta” (egallìasen to pnèuma mou) perché solo attraverso di esso è possibile realizzare le “altezze” celesti. Ed è in queste poche e apparentemente semplici parole che si compendia il Fine ultimo e la ragion d’essere dello stato umano: quello di essere gloria e identità del Dio invisibile.

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